Il Futuro del Copyright nell’Era della Creatività Artificiale con Simone Aliprandi
Siamo tornati con una nuova intervista curata da Francesco Ceridano, founder di Aracne, che questa volta ha dialogato con Simone Aliprandi, avvocato e professore. Aliprandi esplora con noi le sfide legali legate all’intelligenza artificiale, il futuro del diritto d’autore in un contesto sempre più digitale, e le delicate questioni legate alla tutela dell’identità dei brand nell’era della personalizzazione estrema.
Potresti raccontarci qualcosa di te e del tuo percorso professionale? Come sei arrivato a specializzarti nel campo del diritto d’autore applicato alle nuove tecnologie e all’intelligenza artificiale?
Fin dai tempi del Liceo ho sempre avuto velleità creative: mi piaceva scrivere, fare musica, organizzare eventi culturali. Ciò si è protratto anche durante gli anni dell’università (cioè gli anni della mia prima laurea in Giurisprudenza) e quindi mi ha portato a scegliere tra gli esami complementari alcuni esami legati al mondo della creatività e della comunicazione. Sono arrivato quindi a fare la tesi in diritto industriale, materia con un nome altisonante che però contiene parti di diritto d’autore, di diritto della pubblicità e di diritto delle nuove tecnologie. Dopo la laurea in giurisprudenza a Pavia, ottenuta nel dicembre 2003, ho iniziato con la mia attività di consulenza ma anche di divulgazione e di docenza universitaria. Nel 2004 mi sono iscritto a una seconda laurea in Scienze della pubblica amministrazione sempre a Pavia e nel 2005 ho pubblicato la mia prima monografia sul concetto di copyleft e sulle nuove sfide per il diritto d’autore nell’era digitale. Nel settembre del 2007 ho superato l’esame di abilitazione come avvocato presso la Corte d’appello di Milano e avviato le prime collaborazioni con alcuni studi legali milanesi.
La seconda laurea si è conclusa nell’aprile 2008 con una tesi in Informatica della pubblica amministrazione dedicata al tema dell’interoperabilità e degli standard aperti (che divenne poi anch’essa una monografia). A settembre dello stesso anno ho iniziato il mio percorso di dottorato di ricerca in Società dell’informazione a Milano Bicocca, che si è conclusa nel gennaio 2012. Il dottorato mi ha permesso anche di fare un’esperienza all’estero davvero fondamentale e illuminante: nel 2011 ho infatti trascorso due periodi di internship presso due importanti enti non-profit di San Francisco (Creative Commons ed Exploratorium) per un totale di cinque mesi.
Dopo il dottorato sono aumentate via via le collaborazioni accademiche fino ad arrivare alla situazione di oggi che mi vede professore a contratto presso tre importanti atenei italiani: l’ISIA di Firenze (per il settimo anno consecutivo), l’Università di Bologna (per il secondo anno consecutivo) e l’Università di Milano Bicocca (da quest’anno).
In che modo l’intelligenza artificiale sta influenzando il mondo del diritto d’autore? Quali sono le principali sfide e opportunità che vedi in relazione all’uso dell’AI nella creazione di contenuti e opere d’ingegno?
Da un paio d’anni a questa parte buona parte dei seminari e degli incontri divulgativi che mi vengono richiesti riguardano proprio questo tema, e già questo è un sintomo di quanto l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa sia percepito come destabilizzante per il mondo del diritto d’autore e in generale per il mondo della creazione di contenuti. Nei miei interventi pubblici e nei miei scritti (in particolare nel mio libro dello scorso anno “L’autore artificiale”) ne parlo come una delle sfide più ardue che il diritto d’autore ha dovuto affrontare (e deve ancora affrontare) nei suoi circa tre secoli di storia. La rivoluzione digitale e telematica degli ultimi 25 anni ha già messo in crisi non poco il copyright (che letteralmente significa “diritto di copia”), dato che siamo entrati in una nuova era in cui è proprio il concetto di copia a essere diventato molto fluido ed evanescente, proprio grazie alla digitalizzazione e all’interconnessione telematica.
L’avvento dell’AI generativa va a minare un altro pilastro fondamentale, quello più importante: mi riferisco al concetto stesso di creatività, che fino a pochi anni fa era considerato un dominio assolutamente riservato all’essere umano e oggi invece si scopre sempre più intersecato da una matrice non umana. I sistemi di AI disponibili oggi hanno ormai imparato così bene a emulare la creatività umana da rendere difficile, anche per gli esperti del settore che quindi hanno occhio clinico, osservare un’opera creativa riconoscendo dove finisca l’apporto umano e dove invece inizi quello della macchina. Questo aspetto è destabilizzante per un istituto giuridico (quello del diritto d’autore) che è sempre stato pensato come “antropocentrico” e in cui la tutela viene riconosciuta solo quando emerge un palpabile sforzo creativo-intellettuale da parte di un essere umano.
La sfida per il diritto d’autore dunque è riuscire a superare questa fase di crisi e cercare di adattarsi a una nuova concezione di creatività e forse anche a una nuova concezione di autore, non più umano in senso stretto ma spesso “ibridato” con la macchina.
Di recente, il gigante della moda Shein è stato accusato dall’artista Alan Giana di utilizzare l’intelligenza artificiale per riconoscere e replicare senza autorizzazione opere protette da copyright, sollevando importanti questioni legali. Come vedi l’evoluzione di casi simili nel settore della moda, e quali strumenti giuridici potrebbero essere utilizzati per prevenire tali violazioni in futuro?
Il caso Shein va ad aggiungersi a una lunga lista di cause intentate negli ultimi anni proprio per effetto dell’avvento dei sistemi di intelligenza artificiale generativa. Solitamente queste cause sono rivolte direttamente contro le aziende che sviluppano i sistemi AI, che vengono accusate di aver addestrato i loro sistemi utilizzando immense masse di dati senza ottenere tutte le dovute licenze e dunque violando i diritti di proprietà intellettuale. Le aziende del mondo AI si difendono costantemente sostenendo che l’attività di addestramento è coperta dal cosiddetto fair use (in quanto si tratta di un’attività trasformativa e non in concorrenza con lo sfruttamento delle opere originarie) e quindi può essere svolta senza chiedere il permesso ai titolari dei diritti.
Il caso Shein pare diverso, perché appunto a essere chiamato in causa da Alan Giana non è chi ha sviluppato il sistema AI bensì chi l’ha utilizzato per replicare opere protette (Shein appunto). Tra l’altro, da quello che ho capito leggendo l’atto di citazione in giudizio, ciò che fa Shein è riconducibile a un sistema automatizzato di ricerca algoritmica di opere creative e di loro copiatura massiva. Si legge infatti: “Per sfornare nuovi articoli a un ritmo così febbrile, gli output del sistema di progettazione basato su algoritmi di Shein, in molti casi copie identiche di opere protette da copyright, vengono trasmessi direttamente alle fabbriche di Shein per la produzione, senza che alcun intermediario umano o funzione di conformità si preoccupi che i progetti dell’algoritmo non siano di proprietà di altri.” È uno scenario indubbiamente interessante che però riporta la questione su un livello più classico di violazione di diritti d’autore, di diritti di design, di diritti di marchio e forse anche di concorrenza sleale con pratiche commerciali scorrette; perché appunto qui si parla più di un’attività di copiatura pedissequa e massiva di opere e prodotti e non tanto di opere generate con sistemi AI.
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale, chiunque può creare contenuti multimediali di alta qualità, come video o immagini, che possono includere marchi famosi. Quali potrebbero essere i rischi legati a contenuti non autorizzati che potrebbero danneggiare l’immagine dei brand? E come il diritto può tutelare i marchi da eventuali abusi?
Quello del brand è tutt’altro problema rispetto a quello del diritto d’autore; si tratta infatti di due istituti giuridici estremamente differenti nei principi e nei meccanismi che li governano. La tutela del marchio inteso come segno distintivo mira a creare nella mente dei consumatori un legame tra un prodotto e l’azienda che lo produce o comunque lo commercializza. Apporre un logo, un simbolo o comunque un segno distintivo su un prodotto e sul suo packaging serve proprio a creare un ricordo nei consumatori e permettere loro di distinguere i vari prodotti disponibili sul mercato.
A volte, a determinate condizioni, anche la forma stessa del prodotto è considerata marchio; si parla in questo caso marchio di forma ed è in effetti la tipologia di marchio più interessante per il mondo della moda e del design. Per intenderci, un consumatore capisce che una borsa è di Chanel già dalla forma stessa e dai materiali utilizzati, anche senza che vi sia il logo; oppure capisce che un profumo è di Dior anche solo guardando da lontano la forma del suo flacone. Questo è appunto l’effetto dei marchi di forma. Essere titolari di un marchio implica avere un diritto esclusivo al suo utilizzo e al suo sfruttamento commerciale; di conseguenza gli altri soggetti devono ottenere preventivamente il permesso dal titolare e, come spesso accade, versare un compenso in cambio di questo permesso (licenza).
Indubbiamente il titolare del marchio potrebbe non gradire e quindi andare per vie legali se un contenuto (un’immagine o un video) creato con un sistema di intelligenza artificiale replica qualcosa che è coperto da un suo diritto di marchio e se ciò viene fatto con l’intento di indurre i consumatori in confusione, cioè se si cerca di lasciar intendere che quella immagine rappresenti davvero qualcosa che è stata realizzata con il benestare del titolare del marchio. Diverso sarebbe invece se si trattasse di un’immagine fatta con AI che però comporta un utilizzo meramente descrittivo o “narrativo” del marchio. Pensiamo ad esempio a un graphic novel creato con AI in cui un personaggio della storia indossa un tipo di scarpe con tre bande parallele sul lato. La Adidas potrebbe davvero lamentare una violazione in un caso del genere? Diverso sarebbe se quella stessa immagine fosse utilizzata su un sito ecommerce di articoli sportivi, facendo così pensare agli acquirenti che quelle immagini richiamano davvero delle scarpe Adidas messe in vendita su quel sito.
Ho scritto un articolo qualche mese fa in cui esploro il trend dell’estrema personalizzazione tramite l’intelligenza artificiale. Questo trend rischia di eliminare le tracce distintive dei brand, riducendone l’identità visiva. Quali potrebbero essere le problematiche legali legate a questa personalizzazione estrema? Credi che la tutela del marchio o in generale delle caratteristiche distintive del brand potrebbero essere messi a rischio?
Bella domanda. E non so se un giurista sia la persona più adatta a rispondere, poiché mi sembra più una questione di strategia comunicativa e di modello di business che di tutela dei diritti. Indubbiamente, dal punto di vista del diritto dei marchi e dei segni distintivi, lo sforzo e l’investimento dei grandi player è quello di rafforzare il proprio brand. Più un marchio è forte (nel senso che ha un maggior impatto evocativo sul pubblico di riferimento) e più alta è la possibilità di difenderlo sul piano legale. Quindi questa nuova tendenza sembra in effetti andare nella direzione opposta di consentire maggiore flessibilità sulla capacità distintiva del marchio a fronte di una maggiore visibilità legata all’hype “intelligenza artificiale” (che potrebbe esaurirsi nei prossimi mesi) e anche a una componente di “gamification” (sempre più presente nei modelli di business).
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